Che di mezzo ci fosse qualcosa di un po’ mistico un po’ assurdo lo si capì dalla prima, primissima uscita: un 7 pollici (il formato del vecchio 45 giri) che conteneva un libretto di una ventina di pagine con dentro il suo “libretto di preghiere” (“Holidays / Candylane”, fine 2009). E quello che arrivò dopo, gli altri singoli e soprattutto l’intero album
“A Killer & A Sufi” (2010), uscito sulla leggendaria label inglese Warp, non fecero che confermare che si aveva a che fare con un personaggio veramente folle.
Folle, ma anche geniale e assai affascinante nello scegliersi i panorami sonori di accompagnamento: Gonjasufi è sì lo strano figuro con la barba che assalta il microfono lanciandosi in ipnotiche derive dove il cantautorato è destrutturazione ed invettiva, ma è anche il leader di un progetto che ha radunato alcune delle migliori menti della nuova generazione di beatmaker californiani, a partire da Flying Lotus, Gaslamp Killer e Mainframe, e che successivamente ha chiamato a raccolta per una versione alternativa del suo lp d’esordio nomi nobili dell’elettronica più intelligente quali Mark Pritchard, Braodcast, Bibio, Oneohtrix Point Never (nel bellissimo “The Caliph’s Tea Party”, uscito a fine 2010).
Dal vivo Sumach Valentine – questo il suo nome all’anagrafe – è una presenza scenica particolarissima. Finora in Italia si era esibito solo nell’edizione 2010 del festival romano Dissonanze, diventando subito beniamino degli spettatori ma anche degli altri musicisti presenti al festival (la maglietta con la sua effige è un must…). Ora ha alzato ancora di più l’asticella della sfida artistica: sempre più sicuro dei suoi mezzi, torna nel nostro paese con una vera e propria band, per tradurre in modo ancora più complesso e straniante le sue intuizioni mistico-sonore, dove hip hop e funk digitale incontrano la musica devozionale o le allucinazioni da deserto californiano.